Si chiamava Gaetano Costa ed è stato ucciso dalla mafia il 6 agosto 1980

Siamo a Palermo. È il 6 agosto 1980 e sono passate da poco le 19:30. Gaetano Costa sta percorrendo via Cavour, una centralissima strada della città. Si ferma davanti ad una bancarella di libri. Il giorno dopo partirà per le vancanze e un buon libro può essere un buon compagno. Si ferma spesso, in quella bancarella. È poco distante da casa. Ha scelto il libro che gli farà compagnia. Prende dalla tasca il portafogli per pagare. Una motocicletta, con due persone a bordo, lo affianca. La canna di una Smith & Wesson si alza verso di lui e esplode tre colpi. Gaetano Costa cade a terra, ferito a morte. I suoi assassini spariscono lungo la strada. Sul marciapiede sono rimasti il suo orologio, i suoi occhiali, il suo portafogli e un lago di sangue, scuro, denso, che, a causa del non mite scirocco che in quei giorni martoriava Palermo, si stava essiccando velocemente. Poche persone in giro, in quel sabato d’agosto. Finestre chiuse. Quando arriverà l’ambulanza, Gaetano Costa sarà ancora là, immerso nel suo sangue, sotto lo sguardo ignavo della città. Morirà durante il trasporto all’ospedale. Chi era Gaetano Costa e chi ha voluto la sua morte?

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Gaetano Costa

Gaetano Costa era nato a Caltanissetta l’1 marzo 1916. Per raccontarlo è necessario iniziare da quel vento socialista dei primi anni del ‘900 che soffiava forte su Caltanissetta, dall’adesione del giovane Gaetano Costa all’allora clandestino PCI, alla sua maturità intellettuale e sociale che lo porterà nei ranghi dell’esercito regolare prima, come ufficiale dell’aviazione dell’Esercito italiano, e poi, l’8 settembre, a “salire in montagna” andando in Val di Susa a combattere come partigiano. E poi ancora il racconto del suo impegno in magistratura a Caltanissetta prima e a Palermo dopo, sino alla sua morte. Gaetano Costa era un uomo che, con coerenza ed onestà, nel momento della sua entrata in magistratura, riconsegnò la sua tessera del PCI. A tal proposito il dottor Pietro Grasso, che a quei tempi era uno dei suoi sostituti, ricorda: “Non ho mai capito perché a Caltanissetta, da dove arrivava, lo avessero definito “giudice rosso”, io non ho mai percepito una politicizzazione dell’ufficio. Le sue valutazioni erano sempre equilibrate, supportate da forti elementi di prova e capaci, allo stesso tempo, di dare nuovo impulso alle indagini. Con lui, per la prima volta, indagammo sui patrimoni della mafia“. Nel momento del suo insediamento a Palermo, alla scrivania del procuratore Capo della Repubblica, scrivania che gli fu negata per sette mesi, nonostante la sua nomina, dal suo predecessore, il dottor Pizzillo, c’erano tutti i casi ancora non risolti che, a partire dall’omicidio del giornalista De Mauro sino a quello del capitano Emanuele Basile, avevano riempito di sangue le strade di Palermo e della provincia: Mauro De Mauro, Pietro Scaglione e Antonino Russo, Peppino Impastato, Filadelfio Aparo, Mario Francese, Giorgio Boris Giuliano, Cesare Terranova e Lenin Mancuso, Piersanti Mattarella e, appunto, Emanuele Basile. Con l’arrivo di Rocco Chinnici, che lo sostituirà, anche il fascicolo della sua morte finirà su quella scrivania.

Compito arduo, quello di Gaetano Costa. La maggior parte delle indagini erano state inquinate da sapienti depistaggi e, non di secondaria importanza, fu suo il compito di traghettare la Procura di Palermo dalla gestione discutibile del dottor Pizzillo, in odore di compiacenza verso i poteri forti, a una più adatta ad uno stato democratico, creando i presupposti, per i suoi successori, di una migliore gestione della giustizia. L’eredità di Gaetano Costa, mente fertile ed astuto investigatore, è anche questa, unita alla sua intuizione di quanto fosse importante seguire il denaro per meglio comprendere il modello organizzativo di Cosa Nostra e chi fossero veramente “i pupi” e chi “i pupari”.

Nessuna verità processuale sul suo omicidio nè, tantomeno, sui mandanti reali. Fu ritenuta causa scatenante di quella spietata esecuzione, il fatto che egli avesse, poco tempo prima, firmato personalmente i mandati di cattura nei confronti del clan Spatola-Inzerillo-Gambino, mandati che i suoi aggiunti non avevano voluto firmare. Secondo questa ipotesi, il suo omicidio venne ordinato dal clan mafioso capeggiato da Totuccio Inzerillo, che rimase poi ucciso l’anno dopo nella “seconda guerra di mafia”, quella voluta dai corleonesi di Liggio, Riina e Provenzano. Non fu mai provata la colpevolezza dell’Inzerillo nè di nessun altro.

(rg)